L’artista cinese di fama internazionale Liu Bolin (Shandong, 1973) è conosciuto dal grande pubblico per le sue performance mimetiche, in cui, grazie a un accurato body painting, il suo corpo risulta pienamente integrato con lo sfondo.
Luoghi emblematici, problematiche sociali, identità culturali note e segrete: Liu Bolin fa sua la poetica del nascondersi per diventare cosa tra le cose, per denunciare che tutti i luoghi, tutti gli oggetti, anche i più piccoli, hanno un’anima che li caratterizza e in cui mimetizzarsi, svanire, identificarsi nel Tutto: una filosofia figlia dell’Oriente, ma che ha conquistato il mondo intero, soprattutto quello occidentale.
Contraddizioni tra passato e presente, tra il potere esercitato e quello subito: è la lettura opposta e complementare della natura delle cose, documentata dalle immagini di Liu Bolin. Denuncia? Riflessione critica? Contestazione politica e sociale? Le fotografie di Liu Bolin hanno diversi livelli di lettura, oltre l’immediatezza espressiva. Dietro lo scatto fotografico che si conclude in un momento c’è lo studio, l’installazione, la pittura, la performance dell’artista: un processo di realizzazione che dura anche giorni, a dimostrazione di come un’immagine fotografica artistica non sia mai frutto di un caso, ma la sintesi di un processo creativo spesso complesso, che rivela la coscienza dell’artista e la sua intima conoscenza della realtà in tutta la sua complessità.
È una lettura della performance fotografica che lo spazio MUDEC PHOTO accoglie in pieno, non limitandosi così a ospitare solo mostre fotografiche canoniche, ma allargando lo sguardo anche al mondo della fotografia ‘prima dello scatto’, a quell’universo di ricerca preparatoria che è essa stessa performance artistica, coinvolgimento emotivo, attesa dell’attimo perfetto, concentrazione intima e lavoro di squadra; e infine, scatto.
LA MOSTRA (dal 15 maggio al 15 di settembre 2019 presso il MUDEC)
Attraverso le sue opere Liu Bolin cerca di sviscerare le contraddizioni dell’uomo contemporaneo e di indagare nel profondo il rapporto tra la civiltà creata dall’uomo e l’uomo stesso.
Il primo impulso trasposto nelle fotografie di Liu Bolin, che possiamo dividere in ‘serie’ sulla base del tema affrontato o del luogo oggetto dell’attenzione artistica del performer, è stato la ribellione nei confronti delle autorità, che nel 2005 stavano demolendo il suo studio nel Suojia Arts Camp per far spazio al progresso e al nuovo che avanza, distruggendo però tutto il mondo alle spalle dell’artista, e quindi anche la tradizione e l’identità di un popolo. Nasce la serie Hiding in the city, esposta in mostra.
Liu Bolin prosegue nella ricerca sulla sua vita e sui punti in comune con le vite degli altri, i temi sociali che racchiudono i luoghi da lui visitati e l’impatto del proprio messaggio artistico sulla società. Individuare dunque lo spazio giusto diventa fondamentale per comunicare il messaggio. È il caso della serie Hiding in the rest of the world, e soprattutto Hiding in Italy (2008-2019) dove all’importanza del luogo si aggiunge l’attenzione al confronto tra la visione della cultura orientale e quella occidentale, dove Cina e Italia rappresentano per l’artista le due culle della cultura rispettivamente asiatica ed europea, a cui si unisce il particolare amore e rispetto per il Bel Paese e l’attenzione che in generale l’Occidente presta alla conservazione della cultura.
In mostra anche le fotografie del ciclo Shelves, “scaffali”: di fronte a lunghe distese di scaffali di supermercati, colmi di beni di largo consumo, luoghi banali e tipici della nostra quotidianità, Liu Bolin scompare tra scatolame e verdure, evocando un’immagine forte, ossessiva e totalizzante, come lo è il nostro bisogno consumistico in cui prodotto e consumatore finiscono per identificarsi e annullarsi.
Tra le fotografie più celebri, anche il ciclo Migrants – tema particolarmente caro al MUDEC – dove Liu Bolin ha coinvolto altri performers, ovvero dei rifugiati ospiti di alcuni centri d’accoglienza in Sicilia. In questo caso, l’identificazione con lo sfondo lascia il posto alla spersonalizzazione dell’io e di un popolo, che non ha più volto se non quello della disperazione umana e della denuncia sociale.
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